Pellegrini a Santiago. Don Paolo Asolan: un cammino dell’anima per scoprire il mistero della gioia

I pellegrini a partire dal Medioevo hanno attraversato l’Europa per giungere alla Cattedrale di Santiago di Compostela, in Galizia, Spagna, presso la quale si trovano le reliquie dell’Apostolo San Giacomo il Maggiore. Un’esperienza interiore compiuta anche da don Paolo Asolan, professore di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, dove ha perfezionato gli studi, in un suo momento particolare, che l’ha condotto a raccogliere in un libro/diario le sue impressioni.

Ricominciare la vita, recita il sottotitolo del volume da lui scritto, “A Santiago!” (Edizioni San Paolo 2024, Prefazione di Gianfranco Ravasi, Postfazione di Davide Gandini, pp. 380, 25,00 euro). 

Abbiamo intervistato don Paolo Asolan, classe 1967, trevigiano di origine, dal 1993 sacerdote diocesano, il quale ci ha raccontato che cosa ha rappresentato per lui intraprendere il Cammino e cosa ha compreso dopo aver percorso quel particolare itinerario.

  • Il Cammino per Santiago è sempre una sfida? 

«Dipende da come si parte. Penso che molto dipenda soprattutto dal motivo per cui si parte. La sfida viene prima del Cammino, ci si domanda per quale motivo si intende partire. C’è anche chi vuole fare turismo a buon mercato, ormai c’è una tale commercializzazione intorno al Cammino di Santiago, che l’elemento avventuroso non è più così presente, come poteva essere quando lo feci io vent’anni fa». 

  • Per quale motivo allora decise di intraprendere il Cammino di Santiago? 

«Ho sempre fatto pellegrinaggi a piedi. Fin dal 1982 sentivo il desiderio di fare il Cammino, ma l’intenzione rimaneva sullo sfondo fino a quando nel 1999 con i ragazzi della parrocchia abbiamo fatto tre percorsi. Rimasi folgorato vedendo i pellegrini con lo zaino, pensavo di fare il Cammino l’anno dopo; invece, il parroco non mi lasciò andare. Nel gennaio successivo improvvisamente morì mio padre, a quel punto il motivo per andare era più concreto».  

  • Che cosa resta oggi di quel pellegrinaggio? 

«Ho capito che bisogna interpretare la vita come un pellegrinaggio e che tutto ha un senso e che sei accompagnato in maniera invisibile ma reale, perché il Signore esiste e si prende cura di noi». 

  • Il libro rappresenta il diario di un’esperienza interiore? 

«È soprattutto questo, sì. Sugli aspetti del Cammino, sull’organizzazione e sull’itinerario vi sono già molti libri, il mio è un’altra cosa».

  • C’è sempre un pellegrinaggio da compiere, esperienze da attraversare, cammini più o meno originali, più o meno dolorosi, gioiosi, gloriosi o luminosi, in tutte le nostre vite? 

«Certo. La fede è un pellegrinaggio, ma se pensiamo ad Abramo e alle altre grandi figure, c’è sempre stata una chiamata a uscire, fino ad arrivare ai pastori ai quali viene annunciata la nascita di Gesù, gente che vive per strada e che quindi può muoversi, può andare a vedere. Con i pellegrini è l’anima che cammina. Mentre un turista sa già cosa vuol vedere, con il pellegrinaggio sei sospeso a quello che trovi».  

  • Che cosa Le ha rivelato il Camino de Santiago

«Il mistero della gioia, cioè avere la certezza della presenza di Dio».