Papa Francesco in Indonesia. Enzo Romeo: “Il filo conduttore è la sfida dell’unità nella diversità”

Dal 2 al 13 settembre prossimi è in programma il viaggio apostolico di Papa Francesco in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor-Est e Singapore, che sarà il più lungo pellegrinaggio internazionale del pontificato di Bergoglio. 

Il Papa si recherà a Jakarta dal 3 al 6 settembre, a Port Moresby e a Vanimo dal 6 al 9 settembre, a Dili dal 9 all’11 settembre, e a Singapore dall’11 al 13 settembre. 

Una trasferta da record: 32.814 Km, 44 ore di volo, 17 interventi pubblici, 12 discorsi, 4 omelie e 1 Angelus. 

Di questo importante viaggio dialoghiamo con Enzo Romeo, caporedattore vaticanista del Tg2 e saggista, nato a Siderno nel 1959, che collabora ai periodici “Credere” e “Jesus” e da inviato ha seguito le vicende internazionali degli ultimi decenni, oltre ai viaggi dei pontefici da Giovanni Paolo II a Papa Francesco.

  • Quali saranno i momenti più significativi nelle varie tappe di Papa Francesco in due continenti?

«Ce ne saranno tanti. Credo però che la visita a Giacarta (o Jakarta) avrà un sapore speciale, perché l’Indonesia è la nazione al mondo con più musulmani, oltre duecento milioni, vale a dire circa l’87% della popolazione. Ma è anche un paese dove c’è una radicata presenza cristiana, che sono ventiquattro milioni pari al 10% degli abitanti. Si tratta di cristiani in maggioranza protestanti, mentre i cattolici sono sette milioni. Bisogna dire che le tensioni e le violenze a sfondo religioso non mancano. Tra il 2007 e il 2023 si sono registrati quasi seicento casi di intolleranza verso le fedi minoritarie da parte di fondamentalisti islamici, con intimidazioni, vandalismi e attacchi incendiari. Il Papa rilancerà anche lì il suo messaggio di fraternità universale, che è già ben conosciuto tra la leadership musulmana moderata».

  • Il Vaticano è stato uno dei primi Paesi europei e del mondo a riconoscere l’indipendenza dell’Indonesia nel 1945?

«Sì. Fin dal 1947 il Vaticano ha istituito una delegazione apostolica in Indonesia e la nunziatura fu aperta nel 1950. Ricordo che già due papi hanno visitato questo paese: Paolo VI e Giovanni Paolo II. Papa Francesco ha mostrato grande attenzione all’Indonesia, un arcipelago immenso con circa 360 diverse etnie. La sfida è far vivere fianco a fianco pacificamente persone con religioni e culture differenti, secondo il principio dell’unità nella diversità». 

  • È il più ambizioso viaggio internazionale degli undici anni di pontificato di Bergoglio?

«Diciamo che è il più lungo e anche il più impegnativo sul piano fisico. Visitare quattro nazioni dall’altra parte del pianeta in undici giorni è una bella impresa per un uomo di 87 anni costretto quasi sempre a usare la carrozzina per muoversi. Una scelta, però, coerente con la sua attenzione alle periferie del mondo, e anche al fascino che ispira in lui l’Oriente». 

  • Quali sono i temi che compaiono nei motti e nei loghi del 45esimo viaggio apostolico del Santo Padre?

«Per l’Indonesia accanto all’immagine di Francesco benedicente c’è l’emblema della Garuda dorata, l’aquila sacra, con all’interno la mappa della nazione-arcipelago e le parole “Fede, Fraternità e Compassione”. 

Il logo della Papua Nuova Guinea è una croce con colori che ricordano le albe e i tramonti di questo paese dell’Oceania, accompagnata dalla parola “Pregare”. 

Per Timor Est si è scelto di mettere al centro papa Francesco benedicente, a simboleggiare la protezione che il popolo (a grandissima maggioranza cattolico) riceverà da Dio nel corso del viaggio apostolico. In alto ad arco compare il motto “Che la vostra fede sia la vostra cultura”.

Infine, il logo di Singapore ha una croce stilizzata, che si ispira alla stella dei Magi, all’eucaristia e alle cinque stelle della bandiera nazionale, insieme alle parole “Unità e Speranza” ». 

  • Qual è la situazione del dialogo interreligioso nel Sud-Est Asiatico?

«Come accennavo non mancano le tensioni ma il quadro è molto variegato. Dall’India di Modi attraversata dall’integralismo induista, al Myanmar della dittatura militare, fino alla Cina sotto l’arcigno controllo comunista la libertà religiosa è continuamente messa alla prova, e i cristiani in particolare sono spesso quelli che hanno più difficoltà a esternare con serenità il proprio credo».  

  • Il tema del dialogo interreligioso sarà centrale durante il viaggio più lungo tra Asia e Oceania per visitare quattro Paesi?

«Certamente. Un momento clou sarà il 5 settembre a Giacarta l’incontro con i leader religiosi nella moschea di Istiqlal, la più grande del Sud-est asiatico. Di fronte sorge la cattedrale cattolica dell’Assunzione e per l’occasione è stato ultimato un sottopasso, chiamato “il tunnel dell’amicizia”, che collega i due edifici permettendo di usufruire di parcheggi comuni. Ogni anno, in occasione delle principali festività religiose musulmane e cattoliche, presso la moschea e la cattedrale hanno luogo numerose iniziative di amicizia e dialogo tra le due comunità, che non si fermano solo alle visite di cortesia. Nel giorno in cui si celebra l’Eid al-Fitr, ad esempio, il cardinale Suharyo Hardjoatmodjo, arcivescovo della capitale, è solito modificare gli orari delle messe per consentire ai musulmani di utilizzare il parcheggio della cattedrale».

  • Quanti cattolici ci sono nel Timor-Est?

«Timor ha un 1,4 milioni di abitanti, il 98% dei quali sono cattolici. Dunque, si potrebbe dire che, percentualmente, è la nazione più cattolica al mondo. Il cattolicesimo arrivò coi missionari portoghesi all’inizio del XVI secolo ma fu durante la lotta per l’indipendenza dall’Indonesia, ottenuta nel 2002, che il popolo di Timor Est si è identificato con la Chiesa cattolica, che lo ha incoraggiato e sostenuto». 

  • Ultima tappa Singapore, il Paese con il più alto Pil pro capite di tutta l’Asia e al secondo posto per la più alta densità di popolazione al mondo. Quali sono le sfide che la Chiesa deve affrontare in Asia?

«Singapore veniva chiamata “la porta della Cina” ed è sicuramente a Pechino che guarda papa Francesco, nella speranza di allargare gli spiragli di dialogo avviati negli ultimi anni col governo comunista. Le sfide, tuttavia, cambiano rapidamente in un mondo sempre più globalizzato. Ne è prova, ad esempio, la questione della lingua di cui si dibatte molto a Singapore. Nella città-stato l’avanzata dell’inglese rischia di oscurare le altre lingue, a partire da quella cinese ampiamente maggioritaria. Oltre il 60% dei genitori sotto i 35 anni usa in casa prevalentemente l’inglese coi propri figli e le politiche sul bilinguismo non bastano a cambiare la tendenza. Quello che non è riuscito agli eserciti e alle politiche internazionali – cioè penetrare oltre la grande muraglia – potrebbe avvenire col melting pot culturale (1)».

(1) In un melting pot, le diverse culture si influenzano reciprocamente, contribuendo a creare una società ricca di diversità e pluralità. Questo processo può avere diversi aspetti: dal cibo alla musica, dall’arte alla lingua, dalle tradizioni alle credenze religiose. Le persone che appartengono a culture diverse possono condividere e adottare elementi delle altre culture, creando così una nuova cultura che incorpora e valorizza le varie influenze. (ndr)