Colum McCann racconta Diane Foley, una “madre ordinaria” e la storia di un (im)possibile perdono

Colum McCann con Diane Foley (Instagram)

Una madre e l’assassino di suo figlio sono seduti l’una di fronte all’altro, si guardano negli occhi. Lui per lei è “una soglia buia”: “conoscere il come della morte di una persona amata è conoscerne meglio la vita, per amarla più pienamente”. Lei per lui è lo spiraglio di un’espiazione difficile, forse impossibile. Entrambi sono prigionieri di un passato pesante, che hanno bisogno di ricomporre.

Dopo aver narrato in “Apeirogon” il dolore dico due padri – uno israeliano e l’altro palestinese – che si trasforma in un’arma di pace, Colum McCann, scrittore irlandese che da tempo vive negli Stati Uniti, mette al centro di “Una madre” (Feltrinelli) una storia vera di sofferenza, coraggio, perdono, rinascita: la protagonista è Diane, madre di James Wright Foley, giornalista barbaramente assassinato dall’Isis nel 2014. Una donna straordinaria che dal momento della morte del figlio non ha smesso di lottare perché tragedie come la sua non debbano più ripetersi. Al pubblico del Festivaletteratura di Mantova McCann ha raccontato quanto potere possano avere vicende come queste per “dare speranza a chi è disperato, medicare le ferite, mettere insieme i frammenti di cose rotte, e trarne qualcosa di bello”, nella convinzione che sono davvero le storie, le parole a “tenere insieme il mondo”.

Come si è avvicinato alla vicenda del giornalista James Foley, barbaramente assassinato dall’Isis nel 2014?

“Nell’agosto 2014 la mia casella di posta elettronica, come è accaduto anche a molti altri, si è riempita delle immagini terrificanti di Foley decapitato e ho capito che non le avrei mai dimenticate. Nello stesso giorno hanno iniziato a circolare altre foto che ne ripercorrevano la vita e la carriera. Ce n’era una, per esempio, che lo ritraeva in un bunker in Afghanistan dove lavorava al seguito delle truppe americane. Era seduto in mezzo ai sacchi di sabbia e leggeva un libro, e con grande sorpresa ho notato che era uno dei miei, “Lascia che il mondo giri”. Un particolare che mi ha colpito e turbato. Pochi mesi dopo ho visto alla tv un’intervista con Diane, la madre di James, che diceva fra l’altro che le sarebbe piaciuto scrivere un libro, così le ho mandato un messaggio per dirle che l’avrei aiutata volentieri. Lei non mi ha mai risposto e sette anni dopo, al momento dell’uscita di “Apeirogon”, l’ho incontrata di nuovo casualmente in una videoconferenza. Mi ha detto di non aver mai ricevuto la mia lettera e di non essere ancora riuscita a realizzare il libro. Così ho ripetuto la mia offerta. Diane mi ha invitato ad accompagnarla in un incontro che la preoccupava molto, con l’assassino del figlio: Alexanda Kotey, infatti, foreign fighter dell’Isis, era stato catturato e riconosciuto colpevole di molti delitti. Per evitargli la pena di morte gli era stato proposto di incontrare i parenti delle vittime e fare ammenda. Ci sono andato e così è nata una collaborazione che ha portato a realizzare questo libro, per cui ho accantonato il progetto a cui mi stavo dedicando,“Twist”, che in Italia uscirà probabilmente nel 2026”.

È possibile una forma di perdono e di riconciliazione in una situazione “estrema” come questa?

“Sì è possibile, e se in questo caso è accaduto lo attribuisco alla profonda fede religiosa cattolica di Diane Foley. Sono convinto che avesse già perdonato nel suo cuore Kotey, anche prima di renderlo noto attraverso il nostro libro. Diane serbava rancore soprattutto nei confronti del governo degli Stati Uniti, responsabile di essere rimasto inattivo e di non aver trattato con i terroristi. Aveva visto altri ostaggi danesi, italiani, spagnoli e francesi tornare a casa vivi. Regno Unito e Usa invece si rifiutavano di negoziare e gli ostaggi non rientravano. Mettiamoci nei suoi panni: una madre che guardava i notiziari con angoscia, chiedendosi che cosa fare per salvare il maggiore dei suoi cinque figli. A un certo punto ha detto pubblicamente che avrebbe raccolto soldi per pagare il riscatto, e il ministro della Giustizia ha minacciato di portarla in tribunale. Così, dopo la morte del figlio, Diane ha deciso di continuare a lottare per una strategia diversa per gli ostaggi. Ecco perché la sua storia continua ad avere forza e risonanza. E in effetti qualcosa sta cambiando”. 

Che cosa le ha lasciato questa esperienza, come scrittore e come uomo?

“Tutto il processo di indagine e di scrittura è stato importante anche dal punto di vista umano. L’esempio di Diane mi ha ispirato. La sua esperienza mostra di che cosa possa essere capace una madre, una persona che si definisce “ordinaria”. A 75 anni continua a portare avanti la sua causa con grande forza, senza arrendersi mai, e lo trovo stupefacente. Sono stato fortunato a incontrarla e le sono grato per l’opportunità di occuparmi di questa vicenda”.

L’incontro fra Diane Foley e Alexanda Kotey a suo parere ha avuto un valore anche per l’assassino e per la sua famiglia?

“Anche gli assassini hanno una madre, Alexanda ci ha detto che Diane gli ricordava la sua, di origini greche, mentre il padre è del Ghana, morto quando lui aveva due anni. Ci ha parlato anche dei suoi due matrimoni, il primo in Inghilterra dove ha avuto una figlia che ora ha circa vent’anni, poi si è risposato in Siria dove ha avuto altre tre figlie, l’ultima vista solo in fotografia. Ha pianto mostrando le foto, e abbiamo capito che era davvero turbato. Nessuna storia finisce mai, e così ogni tanto penso a queste ragazze, finite in un campo profughi. Se un giorno riuscissi a rintracciarle credo che racconterei anche la loro storia. Ciò che è successo ha avuto un effetto molto triste su tutte le persone coinvolte, anche su di loro”.

Come considera questo libro: indagine, saggio, romanzo? Come l’ha costruito? 

Non c’è finzione in questo libro, e per realizzarlo ho dovuto fare una scelta importante. Sono andato al colloquio con l’assassinio – con i piedi incatenati, in prigione – come amico di famiglia, non come reporter. Avrei potuto costruire un racconto incentrato su di me, sul mio incontro con Diane, ma non mi interessava. Come osservatore esterno ho cercato di preservare nel modo migliore la potenza di questa vicenda che in alcune sue parti ha la solennità e il respiro dei grandi racconti biblici. Ho voluto mettere tutto in parole sulla carta nell’ordine che mi sembrava giusto per contribuire con il mio lavoro a cambiare un po’ le cose, così come lo sta facendo l’infermiera Diane”.