Lotta alla mafia narrata ai ragazzi: Levantino intreccia le storie di Borsellino e Di Matteo

“La vedete quella nuvola a forma di zampa di anatra? Un po’ più in alto… Un po’ più a destra… Giù, un po’ più giù. Sì, esatto, quella! Ecco, quel puntino sul bordo della nuvola sono io. È il 19 luglio 1992 e io sono appena arrivato”. 

Dopo “Il cane di Falcone” (Fazi 2022) Dario Levantino torna in libreria con un romanzo emozionante, un testo che ha il patrocinio del Centro Studi “Paolo e Rita Borsellino”, adatto ai ragazzi delle scuole, che illustra in modo chiaro con un tono impegnato ma sempre leggero, gli anni che hanno caratterizzato la lotta alla mafia e le dinamiche interne all’organizzazione di Cosa Nostra.

Nel romanzo-fiaba “Il giudice e il bambino” (Fazi 2024, pp. 140, 12,00 euro), l’insegnante e scrittore Dario Levantino, nato a Palermo nel 1987, ripercorre la storia di uno dei delitti più atroci del quale si si è macchiata la mafia, il rapimento (23 novembre 1993) e l’omicidio (11 gennaio 1996) di Giuseppe Di Matteo (1981-1996), di soli 12 anni. L’autore accosta quest’anima innocente alla figura del giudice Paolo Borsellino (1940-1992), vittima di Cosa Nostra nella strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) assieme ai cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. 

Abbiamo intervistato Dario Levantino.

  • Per quale motivo venne rapito il piccolo Giuseppe? 

«Per vendetta. L’idea venne a Giovanni Brusca e la decisione di rapire il bambino venne durante una sorta di G7 della mafia al quale parteciparono Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. Siamo nell’estate del 1993, il 15 gennaio dello stesso anno era stato catturato Totò Riina; quindi, la mafia aveva deciso di adottare una strategia, quella di punire i collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”. Quindi i quattro capi mandamento sopra citati decisero di rapire un figlio di un pentito, Santino Di Matteo,  per vendetta e monito per un futuro eventuale pentimento di un mafioso».

  • I colpevoli sono stati assicurati alla giustizia? 

«Sì, tutti, compresi i carcerieri e i tre boia che uccisero il bambino. C’è da dire che la maggior parte di loro sono persone libere, in seguito alla propria collaborazione con la giustizia. Brusca oggi è libero, è stato un collaboratore molto collaborativo». 

  • Il sequestro, l’omicidio e lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo sono tra i crimini mafiosi ad aver avuto uno dei maggiori impatti sulla società civile, la cultura popolare e la stessa organizzazione criminale? 

«Sì,i quattro capi mandamento si accorsero di aver commesso un errore, all’interno della stessa mafia non tutti erano d’accordo con questa strategia. All’interno del codice d’onore mafioso, uno dei punti saldi è che i bambini e le donne non si devono toccare. Il padre di Giuseppe non ritrattò, l’11 gennaio 1996 Brusca diede l’ordine di uccidere il bambino, aggiungiamo l’aspetto macabro e orribile dello scioglimento nell’acido di Giuseppe. Con questo gesto efferato la mafia si scavò la fossa da sola, molto più degli omicidi Falcone e Borsellino. Per assurdo che sia, l’impatto emotivo fu molto più profondo».

  • Ci descrive brevemente la trama del romanzo? 

«È un romanzo-fiaba per ragazzi, volevo raccontare la storia del piccolo Di Matteo alle giovani generazioni ed essendo una storia macabra volevo addolcirla, allora ho intrecciato due generi letterari, il romanzo storico e la fiaba. Il romanzo inizia il 19 luglio 1992 quando Paolo Borsellino arriva in Paradiso, dopo l’attentato in cui ha perso la vita insieme alla sua scorta. Borsellino viene incaricato da Dio, nel romanzo è una luce, di risolvere casi particolari e delicati. Per un periodo, si occuperà di quelle anime che, per motivi diversi, hanno lasciato qualcosa di irrisolto sulla Terra. Un giorno, però, sulla scrivania del suo ufficio finisce il faldone di un caso inspiegabilmente rifiutato da tutti gli altri funzionari del paradiso. Quell’anima appartiene a un bambino, Giuseppe Di Matteo, ucciso dalla mafia nel gennaio del 1996, un’anima che ha orrore degli adulti…».

  • Le giovani generazioni conoscono la terribile vicenda di Giuseppe? 

«Gli studenti hanno una formazione piuttosto frammentaria, conoscono gli eventi più romanzeschi della mafia. Conoscono Tommaso Buscetta, Totò Riina e anche la fine atroce del piccolo Di Matteo. Non conoscono tutto il resto, il romanzo è stata un’occasione pedagogica per recuperare tutto il resto».

  • La percezione che gli italiani hanno del fenomeno mafioso è cambiata dal 1993 ad oggi?

«Secondo me no, fatte le dovute eccezioni. Credo che si sia rimasti ancorati alla grande narrazione della mafia degli anni Ottanta/Novanta. Dopo gli ultimi attentati “eccellenti” del 1992, la mafia ha cambiato strategia, ha capito che uccidere non conviene, perché gli omicidi fanno sì che si accendano i riflettori. Invece le mafie per operare nelle migliori condizioni hanno necessità che non si parli di loro, non conviene più uccidere i magistrati, ma servirsi di persone specchiate, i “colletti bianchi”. La mafia di oggi è corruzione di appalti, ma questa consapevolezza nell’opinione pubblica è quasi del tutto assente».

  • Trentadue anni dopo la strage di via D’Amelio, restano sempre vive nel nostro Paese l’eredità morale e professionale di Paolo Borsellino? 

«Sì, ed è una cosa che mi conforta. L’esempio di un magistrato come Borsellino è presente nella nostra cultura. Gli ultimi 57 giorni di Borsellino, contando dall’omicidio Falcone, furono eroici, lo dico senza retorica. Ecco perché il suo ricordo è ancora tanto vivo nel nostro Paese».