Ippolito Desideri, gesuita e missionario in Tibet: la storia di un viaggiatore straordinario

Particolare della copertina del libro Viaggiatori straordinari di Marco Valle

Nel pregevole saggio Viaggiatori straordinari. Storie, avventure e follie degli esploratori italiani (Ed. Neri Pozza), il giornalista e autore Marco Valle dedica un’interessante analisi alla figura di Ippolito Desideri, “un pistoiese sul Tetto del Mondo”, colui che fu il “primo esploratore moderno italiano”.

Desideri (1684-1733), entrato come novizio a soli sedici anni nella Compagnia di Gesù, ordinato sacerdote nel 1712, “venne scelto per una missione considerata praticamente impossibile”, cioè “stabilire, approfittando del fallimento di un parallelo tentativo dei cappuccini, una missione gesuitica nel lontanissimo Tibet, un mondo remoto, enigmatico appena sfiorato dagli europei”.     

Poco o nulla si conosceva di quella regione ignota, abitata da genti misteriose, depositarie di saperi e usanze antichissimi, solo in parte accennati da Marco Polo ne Il Milione: “Una grandissima provincia […] [con] molti lunghi fiumi e laghi e havi montagne; e qui li hanno li più savi incantatori e astrologi che sieno in questi paesi. Egli fanno tali cose per opere di diavoli che non si vuole contare in questo libro”. 

Fra Odorico da Pordenone, un missionario francescano, “qualche decennio più tardi […] descrisse nel suo Itinerarium […] il suo passaggio a Lhasa, sede del “papa dei pagani” e delle macabre pratiche religiose dei tibetani”, tra cui la necrofagia rituale.

Leggende mostruose, frutto di abbagli e di mere fantasie, che avrebbero scoraggiato chiunque dall’intraprendere un lungo e pericoloso viaggio di ben quattro anni, nella speranza di incontrare uno strano popolo di cui si ignoravano la lingua, la religione e persino l’aspetto fisico. L’impresa, tuttavia, non parve impossibile al nostro, tanto desideroso di conoscere quei luoghi inesplorati quanto di diffondervi e di annunciarvi la parola di Cristo. Il gesuita pistoiese “dovette intraprendere un viaggio lunghissimo scandito da numerose tappe: il 31 ottobre 1712 s’imbarcò a Genova per Lisbona, poi l’Atlantico e l’Oceano Indiano, Goa […] da qui, Agra, il Ladakh, l’Himalaya e, infine, il 18 marzo 1716, dopo quasi quattro anni di peripezie, l’agognata Lhasa, la città santa dei tibetani”. 

Desideri, “ricevuto dal re Lhabzang Khan”, diede prova di grande coraggio dichiarando apertamente “lo scopo della sua missione”, cioè quello di “propagare il Vangelo e convertire gli abitanti del Tetto del Mondo al cattolicesimo”. La risolutezza del sacerdote suscitò nel monarca una benevola simpatia e una disponibilità a futuri incontri e colloqui, a condizione che “il gesuita [si fosse impegnato] ad approfondire le sue conoscenze sul buddhismo e sulla cultura locale”.

La narrazione di Valle traduce ottimamente il progressivo immergersi del religioso pistoiese, grazie a una determinazione incrollabile, in una cultura segnata da un idioma complicatissimo, mediante “uno studio furibondo e faticosissimo”. L’apprendimento della lingua apparve al gesuita, sin da subito, come la condizione imprescindibile per potere avvicinare “i segreti dei monaci buddhisti”. Desideri doveva guadagnare la stima e la considerazione dei saggi per potere accedere alle dispute teologiche. Tentò, in un primo momento, la via letteraria, stendendo “un libro in versi tibetani [intitolato] L’aurora indica il sorgere del sole che dissipa le ultime tenebre, scritto in forma dialogica”, ottenendo, tuttavia, soltanto qualche timida parola di incoraggiamento da parte del sovrano. Il fallimento, invece che scoraggiarlo, lo spronò ulteriormente allo studio: “Ippolito si rinchiuse prima in una e poi in un’altra lamaseria (vere e proprie università teologiche) immergendosi nel complesso mondo dei monaci. Voleva capire, comprendere una cultura antica e una religione terribilmente articolata (solo il Canone del buddhismo tibetano è composto da oltre cinquemila testi) […]. Uno sforzo immane che negli anni si concretizzò in diversi scritti in lingua tibetana che ancor oggi sorprendono gli studiosi per la loro profondità e raffinatezza”. 

Desideri studiava e viaggiava, esplorando sia gli scritti sia la geografia dei luoghi, mostrandosi ben consapevole di come la parola e il paesaggio contribuissero sinergicamente a delineare l’orizzonte dell’agire e del pensare di “quelle povere genti aggrappate alle pendici dell’Himalaya”, anch’esse “figlie del suo Dio”. Il sacerdote pistoiese si addentrò efficacemente in quel mondo cogliendone lo spirito, in un “continuo muoversi e spostarsi tra valichi e montagne – un estenuante saliscendi tra quote oscillanti tra i tremila e i cinquemila metri”, annotando minuziosamente “nei suoi taccuini ogni particolare, ogni nome, ogni stranezza”, “un vero tesoro di informazioni scientifiche e geografiche”. 

Desideri era pronto per il tanto agognato confronto teologico con i monaci buddhisti, ma la politica, i rovesciamenti della sorte, forse persino la provvidenza, decisero diversamente. Il Paese venne invaso da Tsewang Arabta, re dei Mongoli Zungari, e “i fragili equilibri politici si frantumarono una volta di più”. L’azione mongola convinse “i cinesi, che consideravano quei territori un loro protettorato [a] intervenire”. La difesa mongola non fu in grado di reggere l’urto del nemico: “Il 24 settembre 1720, [il Dragone entrò] nella capitale restaurando la teocrazia lamaista e insediando sul Trono del Leone Kalsang Gyatso, il VII Dalai Lama. Un aiuto non disinteressato”.

Il Tibet perdeva la sua piena indipendenza, pur mantenendo una limitata autonomia interna. Si generò una situazione ibrida ed equivoca, decisamente poco favorevole ad aperture con l’Occidente. Desideri, una volta “normalizzata la situazione nella capitale”, si convinse di potere riprendere il confronto e il dialogo con i dotti tibetani, ma “non aveva fatto i conti con le gelosie dei cappuccini, da poco rientrati a Lhasa […] anch’essi ansiosi di evangelizzare a loro modo il Tetto del Mondo”. Desideri, il 10 gennaio 1721, venne raggiunto da “un ordine scritto di Michelangelo Tamburini, preposito generale degli ignaziani” che gli imponeva di fare immediato ritorno. Un epilogo triste, reso ancora più amaro dal mancato riconoscimento del valore dei suoi studi e della sua opera missionaria, quest’ultima segnata da una profonda modernità, da un atteggiamento di dialogo rispettoso fra fedi e uomini depositari e promotori di saperi, di culture e di identità.

Luca Bugada